La citazione riportata nel titolo è di Wayne Yang e Tuck, docenti di etica e studi coloniali in California: «Vogliamo essere sicuri di chiarire che la decolonizzazione non è una metafora. Quando la metafora invade la decolonizzazione, uccide la stessa possibilità di decolonizzazione; riporta al centro la bianchezza, riorienta la teoria, estende l’innocenza al colonizzatore, intrattiene un futuro coloniale».
Il 29 novembre è la Giornata Internazionale per la solidarietà al popolo palestinese, ed è necessario affermare che la sua istituzione nel 1977, non ha evidentemente supportato né la protezione del popolo palestinese, né la diffusione di informazioni oggettive e slegate dai discorsi populisti e ideologici riguardo a quello che sta avvenendo oggi in Palestina.
Ha senso quindi parlare di solidarietà?
Prima di scrivere questo articolo mi sono a lungo interrogata su questo e su come scrivere qualcosa che non fosse banale, sensazionalista, che non riproducesse logiche coloniali, che non occupasse lo spazio di voci autoctone, o che non fosse semplicemente inutile. L’obiettivo infatti di questo articolo è informare; portare alla luce fatti concreti è essenziale per ricostruire la storia di questa occupazione illegale, che ancora oggi è la questione geopolitica più ideologizzata della storia.
Questo lo afferma Francesca Albanese, relatrice speciale alle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, durante la Lectio Magistralis al DIG Festival e nel suo testo “J’accuse”. Lei usa le parole del diritto internazionale per descrivere il regime sotto cui vivono i palestinesi oggi: occupazione, colonialismo, apartheid, sistema di carceralità, e genocidio.
Il genocidio viene descritto come “creazione delle condizioni di vita che portano alla distruzione di un popolo”, e non ha a che vedere quindi direttamente con l’uccidere persone. Le modalità con cui è stato consumato il genocidio nazifascista di ebrei, popolazione romanì, dissidenti politici, e persone marginalizzate non caratterizza la definizione di genocidio. Esso è la conseguenza di qualcosa che nasce ben prima, dalla disumanizzazione: «i palestinesi sono considerati per la loro natura, un pericolo per la sicurezza israeliana […] Israele ha imprigionato nel corso di 57 anni di occupazione illegale quasi 1 milione di palestinesi, il 40% degli uomini palestinesi sono stati arrestati almeno una volta, si finisce in galera dai 12 anni in poi». Ci sono 2500 ordini militari (che di norma non sono indirizzati alla vita dei civili) che regolano la vita dei palestinesi nelle cose quotidiane e più semplici: prendere casa, cambiare residenza, andare all’estero, iscriversi all’università.
I morti a Gaza arrivano fino a 42 mila dai dati del Ministero della Salute palestinese, dove non si contano coloro che non hanno potuto avere le proprie ferite curate durante i bombardamenti, o chiunque non abbia ricevuto assistenza perché gli ospedali erano ridotti in macerie.
Come si può mostrare solidarietà davanti a tutto questo?
Francesca Albanese ripete che la sua speranza è legata a due aspetti: la validità del diritto internazionale, che non viene applicato nel caso di Israele, ma che nasce per evitare tutto questo e di cui dobbiamo pretendere l’applicazione; e le proteste deз studentз su scala globale, che si sono intensificate a partire dal 7 ottobre 2023.
È fondamentale infatti approfondire le ragioni delle manifestazioni degli studenti, che hanno rappresentato forse l’unico modo concreto in cui la solidarietà si è fatta azione militante in Italia, da un anno a questa parte, soprattutto all’interno delle università, e capire che senso ha il boicottaggio accademico.
Cosa è il boicottaggio accademico e che impatto può avere?
In Italia la mobilitazione è avvenuta principalmente all’interno degli atenei universitari: le comunità studentesche hanno protestato, occupato rettorati, fatto pressione nelle università di Firenze, Siena, Pisa, Roma, Genova, Padova, Trento, Milano, Napoli, Cagliari, Bologna, e Bari. Uno dei principali obiettivi delle proteste è stato obbligare il Senato Accademico a interrompere gli accordi con le università israeliane, soprattutto a seguito del Bando Scientifico 2024 nell’ambito degli accordi tra MAECI (Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale) e Ministero dell’Innovazione, della Scienza e della Tecnologia israeliano. Inoltre, le università italiane nel corso degli anni hanno sottoscritto accordi bilaterali con quelle israeliane, finalizzati alla mobilità internazionale di docenti, ricercatori e studenti.
Il metodo del boicottaggio accademico in questo caso può sembrare solo una protesta simbolica e pacifica, ma ha una storia e una specificità profonda. Per comprendere infatti quanto sia essenziale boicottare anche i luoghi del sapere israeliani, occorre leggere Maya Wind, ricercatrice israeliana alla British Columbia University, e autrice del libro “Torri d’avorio e d’acciaio”. Lei ha usato il suo status di ebrea, bianca e israeliana per fare ricerca, potendo accedere agli archivi statali e militari israeliani e documentare i molteplici legami delle università israeliane con lo stato, compresi i suoi apparati di violenza.
Come spiega l’autrice infatti, l’accademia israeliana si è descritta come centro di democrazia e libertà di espressione: tant’è che molte università internazionali riconoscono gli ambienti accademici israeliani come esempio per la gestione dei conflitti e la multiculturalità. Il testo però, offre abbondanti informazioni «sulle teorie, le competenze, le infrastrutture e tecnologie sviluppate in seno alle università israeliane, o attraverso di esse, a sostegno dei progetti territoriali, demografici e militari israeliani».
Per questo nel 2004, un gruppo di accademicз e intellettuali ha lanciato la “Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele” (Pacbi), invitando tutti gli studiosi internazionali a boicottare gli accordi con università israeliane. Un anno dopo nel 2005, 170 gruppi della società civile palestinese si sono riuniti per lanciare un movimento, chiamato “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” (Bds), oggi internazionale. Ispirati al movimento sudamericano contro l’apartheid, il Bds è uno strumento che ha come obiettivo fare pressione su Israele per raggiungere le rivendicazioni stabilite anche dal diritto internazionale: fine alla colonizzazione delle terre arabe, diritto all’uguaglianza dei cittadini palestinesi, diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. I diversi capitoli del libro spiegano in che modo le università producono conoscenza orientata alle applicazioni militari, e come alcuni corsi siano creati su misura per addestrare soldati e forze di sicurezza. Ne è un esempio Rafael e Israel Aerospace Industries, due dei maggiori produttori di armamenti israeliani, che sono il frutto di infrastrutture concepite dall’Istituto Weizmann e dal Technion, due delle università nate subito dopo la Nakba, per lo “sviluppo tecnologico” di Israele.
Ma quali sono i dipartimenti a servizio dello Stato, e cosa fanno concretamente?
Tre dei principali settori subordinati alle esigenze dello stato sono l’archeologia, le scienze giuridiche e gli studio sul Medio Oriente. Il primo fabbrica prove a sostegno delle rivendicazioni territoriali di Israele cancellando la storia araba e musulmana (es. uso degli scavi archeologici per espandere gli insediamenti ebraici), il secondo erige infrastrutture retoriche e legali per giustificare la violazione dei diritti umani e del diritto bellico, e il terzo promuove una concezione razziale e militarizzata della regione per legittimare la disumanizzazione dei palestinesi.
Un esempio del primo caso è l’occupazione da parte di un plotone di soldati del villaggio di Susiya nel 2022, sulle colline a sud di Hebron nella Cisgiordania, la motivazione era: presenza di un sito archeologico israeliano nel territorio del villaggio. L’archeologo Guttman dell’Università Ebraica infatti dichiarò di aver portato alla luce rovine di una sinagoga di una città ebraica risalenti al IV secolo d.C.; sul sito della sinagoga vennero rinvenute anche le rovine di una moschea, ma di essa fu fatta sparire ogni traccia. Coesistono quindi una rimozione fisica e forzata della popolazione palestinese nei siti “culturali”, e una rimozione della memoria storica islamica. Questa rimozione è mirata ad avvalorare l’identità intrinsecamente ebraica della terra e quindi descrivere la Palestina come patria nazionale ebraica.
Per quanto riguarda le scienze giuridiche invece, gli studiosi hanno contribuito a elaborare giustificazioni morali alle politiche e operazioni militari israeliane, collaborando anche con il dipartimento di filosofia ed etica: il professore di etica Asa Kasher ha collaborato con il maggior generale Amos Yadlin per offrire all’esercito un “manuale etico”, stabilendo una nuova politica degli omicidi mirati. Si sono chiesti: quale è il numero eticamente accettabile di civili palestinesi da poter uccidere nel tentativo di assassinare un palestinese considerato miliziano, al fine di salvare anche un solo cittadino israeliano? La risposta elaborata è stata 3,14 civili palestinesi per un israeliano. La scienza viene quindi sapientemente applicata alla morte.
Il direttore dell’istituto Dayan Center e del dipartimento di storia del Medio Oriente e Africa dell’Università di Tel Aviv invece, è diventato un opinionista fisso del telegiornale del venerdì sera, dove parla abitualmente di tattiche per contrastare la resistenza palestinese. Inoltre, l’insegnamento della lingua araba è controllato, portato avanti solo da insegnanti ebrei; l’arabistica è trattata alla stregua di una lingua straniera, come se non fosse propria del tessuto sociale.
Questi sono solo tre dei mille esempi riportati da Maya Wind, che spiegano la stretta complicità dell’accademia israeliana al genocidio in corso. Ma non solo la complicità: l’elaborazione teorica e del sapere è la base organizzativa dell’azione.
Questo è il senso del boicottaggio accademico che è stato portato avanti dagli studenti in Italia (e più in generale a livello globale) come azione di solidarietà nei confronti dei palestinesi e del movimento Bts; esso ha avuto anche risultati importanti, come la fine della collaborazione tra Università di Torino e università israeliane.
Secondo me, ricordare la motivazione alla base di una pratica di resistenza o di manifestazione è essenziale per non perdere di vista il senso verso cui ci stiamo muovendo.
Se perdiamo la memoria storica fatta di dati oggettivi e di fonti, di “verità prima di tutto”, le parole di solidarietà non possono che suonare vuote e prive di direzione. E di parole vuote diciamo che ne abbiamo sentite abbastanza in questo ultimo anno.
L’unico modo in cui la solidarietà prende senso è se si lega alla storia: solo così può trasformarsi in ciò che davvero può assomigliare alla decolonizzazione di un popolo, ovvero: azione, resistenza, alleanza e liberazione.
Bibliografia e sitografia:
Albanese, F., J’accuse (2023), Fuori Scena
Pappé, I., 10 Miti su Israele (2018), TAMU Edizioni
Tuck, E., Wayne Yang, K., Decolonization Is Not a Metaphor, Decolonization: Indigeneity, Education, & Society 1, no. 1 (2012): 1–40
Wind, M., Torri d’avorio e d’acciaio: Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese (2024), Alegre.
Lectio Magistralis di Francesca Albanese presso il DIG Festival 2024, https://youtu.be/saXFYYVgeW0
Revisione di Marta Finazzi
Grafiche di Chiara Falsini