Se dico trans* a cosa pensate? È probabile che tante persone penseranno a delle donne trans* e alla prostituzione.
Questo perché, facendo anche una semplice ricerca su internet, tale binomio esce sempre tra le prime proposte, soprattutto a causa della cattiva comunicazione dei mass media e per l’inquietante numero di casi legati alle violenze e ai crimini d’odio subiti dalle donne trans* sex worker.
Ma è davvero così automatico che una donna trans* sia una lavoratrice sessuale?
Essere una persona trans* indica l’esperienza di non percepirsi nell’identità di genere culturalmente associata al proprio sesso biologico.
Una persona trans* nata maschio potrebbe quindi crescere percependosi donna, o viceversa, e nel suo percorso di vita scontrarsi con le aspettative familiari e sociali, vedendosi non riconosciuta e spesso discriminata nei vari contesti (familiari, scolastici, affettivi e lavorativi) questo a causa di una stigmatizzazione culturale denominata “transfobia”.
Questo influirà sulla sua vita, sulle possibilità di autonomia, di autodeterminazione e di relazione sociale.
Sono ancora molto numerose le denunce da parte delle associazioni trans* della discriminazione sistemica nell’accedere nel mondo del lavoro nei confronti delle persone trans* con poco “passing” (ovvero dove fisicamente è più intuibile il sesso biologico) o che non hanno ottenuto un adeguamento dei documenti alla propria identità di genere.
Il lavoro sessuale per alcune donne trans* è stato, ed è tuttora, una soluzione per guadagnare e quindi poter vivere.
Per alcune donne trans* è anche un mestiere scelto, per altre una scelta obbligata.
Fino a quando la società continuerà a discriminare e a non tutelare le persone trans* queste non potranno scegliere liberamente il proprio lavoro e fino a quando il lavoro sessuale non vedrà un riconoscimento legislativo adeguato rimarrà un ripiego obbligato ma non sicuro.
Con il superamento dello stigma il binomio donna trans* – sex work non sarà più una costante e soprattutto non avrà più un retrogusto amaro.
La transfobia ha origine dal genderismo e il sessismo che appartengono ad un paradigma ancora dominante nella nostra società: il maschilismo.
Non è quindi un caso che la transfobia sia un atteggiamento spesso più violento nei confronti delle donne trans*.
Il lavoro funziona da motore di integrazione sociale: è uno dei principali elementi che determinano l’integrazione sociale di una persona.
Avere un lavoro sicuro, socialmente accettato, equamente remunerato e soddisfacente favorisce l’integrazione sociale e la costruzione della propria identità.
Il termine “sex work” nasce grazie a Scarlot Harlot ed è un termine ombrello che racchiude al suo interno tutte le professioni che si occupano del sesso, come la prostituzione, ma anche i/l* professionist* della pornografia, dello spogliarello, linee telefoniche, canali “hot”, ecc.
Il sex work (di donne trans* e non) è una categoria del mondo del lavoro in Italia non tutelata a livello legale.
Soprattutto, è contrassegnata da uno stigma sociale che si ricollega al tabù del sesso che, nel caso delle donne trans* va a sommarsi alla transfobia creando situazioni di grave precarietà e rischi per la persona e per la sua salute.
Il MIT – Movimento Italiano Trans segnala che sul totale di tutte le donne che fanno sex work, una percentuale che si aggira intorno al 30-35% sono donne trans*, prevalentemente provenienti dal Sud America hanno un livello di insicurezza allarmante.
Sono a rischio su vari livelli, come ad esempio rispetto alla
- salute (rispetto alle IST)
- incolumità fisica (a causa delle aggressioni subite dalla clientela e dalle forze dell’ordine)
Per questo, e per la condizione di irregolarità dei documenti, è spesso impossibile sia affidarsi alla sanità pubblica sia denunciare questi tipi di violenze.
A tenere il terribile conto delle morti è dal 2008 l’organizzazione no-profit “Transgender Europe” con il progetto “Trans Murder Monitoring”.
Solo nell’ultimo anno, dall’ottobre del 2019 a quello del 2020, le vittime sono state 350, il 6% in più rispetto alla rilevazione precedente.
Il 98% delle persone trans* assassinate nel mondo è donna e nel 62% dei casi si tratta di persone la cui occupazione conosciuta è quella di lavoratrici del sesso.
Quello di queste vittime è un mondo di emarginazione, sotterraneo, che espone in particolare le donne trans* a una serie ancora maggiore di rischi.
La maggioranza degli omicidi (152) è avvenuta in Brasile, a cui seguono il Messico e gli Stati Uniti.
L’Italia occupa una posizione poco lusinghiera in Europa: è il paese che ha registrato il maggior numero di omicidi di persone trans* (42), superato solamente dalla Turchia (54).
L’emergenza covid ha lasciato i/l* sex worker completamente senza tutele.
Con la campagna “Nessuna da sola” il comitato Ombre Rosse ha raccolto più di 11 mila euro utili per sostenere i/l* sex worker per cibo, affitti e medicine.
Anche l’associazione Mit di Bologna ha lanciato una campagna di soccorso alimentare ed economico oltre ad offrire supporto attraverso uno sportello legale che si occupa anche di accompagnamenti socio-sanitari, all’unità di strada “Via Luna” e allo sportello migranti lgbtqia+.
FONTI
www.ilbolive.unipd.it/it/news/trans-day-remembrance-non-dimenticare-vittime
www.transrespect.org/en/tgeu-publishes-report-on-trans-sex-work/
www.rapportodiritti.it/lgbtqi#capitolo
www.mit-italia.it